Alle parole seguirono i fatti. Ed è un caso straordinario -quasi raro- che ancora oggi possiamo seguire la nascita di una nuova razza seguendo passo a passo il lavoro del suo creatore. E se questo è possibile è solo grazie alla meticolosità del dott. Antonio nell' annotare su un registro i vari incroci eseguiti.
Prima di approfondire questo complesso lavoro è però necessario fare una premessa. Quando Augustin cita la "caccia grossa" (la caza major, com' è chiamata in Argentina) non dobbiamo dimenticare l' ambiente nella quale questa si svolgeva: la pampa. Vale a dire una vasta distesa fitta, silenziosa e pianeggiante, nella quale i cani dovevano avere una tattica di caccia, un coraggio ed una determinazione tali da far intimidire anche i più provetti segugi europei. Le prede erano animali scaltri e temibili come il puma e il giaguaro o combattivi come il cinghiale. Ai cani spettava il compito di affrontarli e bloccarli con una stretta al collo o al muso, in attesa del sopraggiungere dei cacciatori a cavallo, ed è quasi inutile dire che dovevano essere soggetti eccezionali.
Antonio N. Martinez, da provetto cacciatore qual era, lo sapeva bene. Per questo decise di partire dal miglior cane da combattimento presente in Argentina, il cane de Pelea cordobès (cane da presa di Cordoba). Si trattava di un' eredità del dog fighting, pratica portata in Argentina da spagnoli e inglesi, e che anche avevano trovato un notevole consenso. Iniziò dunque con l' incrociare questo cane con altre otto razze diverse, ciascuna scelta per una caratteristica precisa: il Boxer per l' equilibrio caratteriale, il Bull Terrier per il coraggio, il Bulldog Inglese, il Mastiff e il Dogue de Bordeaux per incrementare la potenza della presa e lo sviluppo mascellare, l' Alano per la statura, il Pointer per l' olfatto e il cane dei Pirenei per il candore del mantello. Il primo risultato fu la creazione nel suo allevamento di quella che lui definì la Famiglia Araucana, una sorta di babele di soggetti dalle taglie e forme più disparate. L' obiettivo, nonostante la confusione che ci si può immaginare, era però chiaro: ottenere, come lui stesso disse, "un Dogo Argentino di notevole omogeneità razziale e costanza genetica".
L' impresa finalmente riuscì non molto tempo dopo. Nel 1928, dopo solo tre anni di lavoro, Antonio N. Martinez poté stilare una prima bozza di standard del nuovo cane. I tempi, però, erano probabilmente ancora prematuri tanto che la Federazione Cinologica Argentina ebbe una prima, tiepida reazione. Probabilmente voleva avere la certezza che la nuova razza potesse mantenere inalterato con gli anni sia il genotipo che il fenotipo. Così il lavoro di Martinez continuò ulteriormente, cercando di affinare l' obiettivo attraverso il reincrocio dei cani nati nelle generazioni che via via si susseguono. Come spesso capita in questi casi, però, il papà del Dogo Argentino non potè vedere coronato il suo sogno. Nel 1956, durante un' ennesima battuta di caccia, venne ritrovato morto. Si trattò probabilmente di un omicidio ma, ed in certo senso è questa la cosa più importante, veniva compromesso quel prezioso lavoro selettivo portato avanti fino ad allora. Se questo non è accaduto è solo grazie alla disponibilità del fratello Augustin. Ritiratosi a Chubut, una delle isole della Patagonia, portò a termine il lavoro di Antonio tanto che nel 1964 la Federazione Cinologica Argentina e l' Argentina Rural Society riconobbero la nuova razza. Nove anni più tardi, nel 1973, anche lo fece la Fci, approvando lo standard di razza rimasto in vigore fino al 1999 (da allora ne esiste una nuova versione).